Sono nato molti anni fa a Verona, dove tuttora risiedo. Non ho avuto una vita movimentata.
Ho cominciato a fotografare da piccolo, esponendo al sole, con il torchietto, delle carte al bromuro attraverso dei negativi che raccattavo per casa. Ottenevo delle stampine di un bel colore violaceo che, ahimè, non riuscivo a fissare. Ho provato dunque le ansie e le delusioni dei pionieri della fotografia. Ho cominciato a scattare delle foto, sempre negli anni infantili, con una vecchia macchina a lastre, senza lastre: stavo ore a contemplare quelle immagini capovolte, meravigliato di come potessero mutare variando il diaframma e la messa a fuoco. Mi sono fatto allora l’idea, che tuttora conservo, che la fotografia fosse una sorte di sortilegio.
Ho coltivato questo interesse per tutta la vita, sempre con una forte propensione all’esperimento, e l’ho praticato come una privatissima terapia dell’anima, a lato delle mie occupazioni professionali “serie”. Questa esigenza e scelta di riservatezza mi ha sempre tenuto lontano da circoli e concorsi. Solo in questi ultimi anni, trovandomi finalmente con del tempo libero, ho approfittato della possibilità di organizzare un paio di mostre, in gallerie “da pittori”, soprattutto per aver modo di sviluppare dei temi e dare un filo di coerenza alla mia attività.
Se guardo a quello che sinora ho fatto, credo di ravvisare una costante tematica nel “dramma” che si sviluppa all’interno dell’immagine, prevalentemente tra la materia, magma o groviglio che ci appaiono casuali, e la forma, prodotto dell’intenzionalità umana. In questo contrasto, materia e forma si alternano nel ruolo del “buono” e del “cattivo”.
La serie dei Rebus riprende il nome dal noto gioco enigmistico, in cui lettere alfabetiche si insinuano surrealmente in immagini per costruire un significato altro, che non è né dell’immagine, né delle lettere. Questi miei rebus esprimono un contrasto doppio: uno tra la razionalità del segno alfabetico, forma simbolica per eccellenza, e l’indecifrabilità del contesto; un altro tra la perentorietà delle lettere e la loro incapacità si significare alcunché se avulse dalla parola.
A differenza di quegli enigmistici, questi miei rebus sono dunque senza soluzione.
E’ ovvio che chi produce qualcosa, a furia di pensarla e riguardarla, ci vede anche quello che non c’è o che è rimasto nelle sue intenzioni. Il giudizio degli altri non è quindi solo importante: è vitale.
Ho la consuetudine di stampare personalmente in formati piuttosto grandi, 45 x 68 o 60 x 90. Uso sempre carta opaca e quasi sempre non trattata (uncoated) che, a differenza della lucida, dà, a mio parere, più evidenza all’immagine in quanto tale che alla cosa fotografata. Per dare più consistenza alla stampa, che la carta non trattata tende a rendere un po’ floscia, spesso ricorro al doppio o triplo passaggio nella stampante; poi applico un finissaggio con una vernice spray anti-UV e termino con un leggerissimo strato di cera d’api . La resa fornita dal monitor è chiaramente diversa da quella che si può percepire guardando e toccando la carta. Queste avvertenze mi sembrano quindi, ancorché noiose, indispensabili.