Tecniche di Photo stitching: il Focus Stitch.

23 Maggio 2007

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Introduzione

In questo articolo, che conclude la serie sulle tecniche di photo stitching pubblicata su PhotoActivity, approfondiremo la teoria relativa al concetto di “nitidezza” di una stampa fotografica, per poi mostrare come le attuali tecnologie digitali possono aiutarci ad incrementarla.

Come sottolineato nel primo articolo, l’approccio del “tutto nitido” non rappresenta necessariamente la ricetta magica per ottenere immagini più apprezzabili, anzi molto spesso una sapiente composizione di aree nitide ed aree sfocate rappresenta un elemento estremamente gradevole nella composizione di un’immagine fotografica.

Tuttavia è innegabile che esistono situazioni nelle quali la nitidezza dei vari piani costituisce un fattore decisivo, come spesso accade per la stampe “Fine-Art” relative ad immagini di paesaggio.

Revisione del 1 Novembre 2007:  Scisso in più paragrafi l'ex paragrafo 5 (con conseguenti riadattamenti ). Aggiunto il paragrafo 6, relativo alla teoria del campionamento digitale di una immagine.

Prima di affrontare il problema dal punto di vista operativo, è necessario chiarire cosa si intende con il termine “nitidezza”: per fare ciò occorre fornire qualche elemento di conoscenza riguardante il sistema di visione umano.

L'occhio umano può essere equiparato ad un sistema ottico, pertanto è possibile analizzarne le prestazioni applicando le classiche leggi dell'ottica geometrica. Ovviamente non è questa la sede più adatta per approfondire nel merito questi complessi temi, ma puntiamo direttamente la nostra attenzione sui due limiti principali del sistema:

- aberrazione sferica assiale: è un difetto ottico per il quale i raggi luminosi che penetrano dalla zona periferica della pupilla si focalizzano su un piano diverso rispetto ai raggi che penetrano lungo l’asse ottico. L’entità di questa aberrazione decresce col decrescere del diametro della pupilla (di fatto paragonabile all’apertura del diaframma)

- diffrazione ottica: è un difetto dovuto alla propagazione ondulatoria della radiazione luminosa. I raggi luminosi tendono infatti a deviare il loro percorso quando transitano molto vicino a soggetti opachi, nel nostro caso il bordo della pupilla. Il degrado qualitativo dovuto alla diffrazione decresce incrementando il diametro della pupilla.

In buona sostanza i due difetti non possono essere eliminati contemporaneamente: la condizione qualitativamente migliore deriva dunque da un compromesso, che corrisponde al punto in cui le due curve di degrado (aberrazione sferica e diffrazione) si intersecano:


Degrado della visione in funzione del diametro della pupilla

Come si vede, i due difetti ottici raggiungono il minimo comune in corrispondenza di un diametro pupilla di circa 3mm: questa è dunque l’apertura pupillare più favorevole in termini di acutezza visiva. L'illuminazione ambientale gioca quindi un ruolo decisivo, perché determina l'apertura pupillare: in pratica il nostro cervello regola l'apertura momento per momento, con una sorta “esposizione automatica”.

Il seguente grafico riassume i valori medi di apertura pupillare, ottenuti verificando su vari individui le reazioni della pupilla al variare dell’illuminazione ambientale (valori approssimati, espressi in Lux con scala logaritmica) :


Diametro della pupilla in funzione dell'illuminazione ambientale

Dal grafico risulta evidente il ruolo dell’illuminazione della scena: per raggiungere la massima acutezza visiva, in corrispondenza del diametro pupilla di 3mm, abbiamo bisogno di circa 2500 Lux, che corrispondono a circa 10 EV (l'equivalente di ISO100, f/2.8 1/60sec).

Giunti a questo punto non rimane che quantificare la risoluzione dell’occhio, ovviamente per via sperimentale.
I test ci dicono che l’occhio si comporta in maniera completamente diversa se deve riconoscere una singola linea su sfondo uniforme, oppure se deve distinguere più linee parallele ed equidistanti.
Nel primo caso l’angolo di dettaglio “Alfa” risulta di circa 1” (secondo d’arco), ovvero si riesce a riconoscere un tratto di spessore 0,5mm ponendosi a 10 metri di distanza da esso.
Nel secondo caso la risoluzione si riduce pesantemente, con Alfa che si attesta attorno ai 70”: ponendosi ad una distanza di visione pari a 10 metri, le singole linee potranno essere distinte solo se il loro spessore è di almeno 3,4mm. Al di sotto di questo valore l’insieme di linee ci appare come un’unica linea.


Valori dell'angolo Alfa in base al tipo di soggetto

In realtà la risoluzione corrispondente ad Alfa=70” si ottiene solo con soggetti ad altissimo contrasto (ad esempio linee nere su sfondo bianco, ben illuminato), mentre in condizioni di contrasto medio-alto, come accade per la maggior parte dei soggetti che ci circondano, la risoluzione effettiva si dimezza, con Alfa che assume un valore attorno ai 140”(circa due primi d’arco): per le applicazioni fotografiche è questo il valore che possiamo prendere come riferimento.

E' tuttavia importante sottolineare un paio di aspetti:

- i 140" rappresentano un valore medio, riferito ad individui normovedenti

- in alcuni casi il valore preso a riferimento è diverso -in una fascia compresa tra i 120” ed i 170”- perché si fissano arbitrariamente situazioni di misura diverse, con particolare riferimento al contrasto dei soggetti ed alle condizioni di illuminazione.




02 -
Il "Circolo di confusione"

Una acutezza visiva di circa 140" implica che l’unità di spazio minima che siamo capaci di distinguere è di 68mm a 100 metri di distanza dal soggetto, 6.8mm a 10 metri, 0.68mm ad 1 metro, e così via.


Questa unità di spazio minima, geometricamente definibile come diametro del cerchio descritto dalla proiezione del cono visivo Alfa, è chiamata comunemente “Circolo di Confusione” (CdC), e si definisce matematicamente nel seguente modo:

CdC = D * 2 * tan (Alfa / 2)

Dove:
D =    distanza di visione
Alfa = risoluzione dell’occhio in radianti

Fissiamo adesso alcuni valori standard:

- la risoluzione dell’occhio Alfa =140", dunque l'espressione 2 * tan(Alfa/2) diviene una costante di valore 0,00068
-
distanza di visione "D" uguale alla diagonale "Df" del formato della stampa , una regola comunemente accettata.

Pertanto:

CdC = Df * 0,00068

L'espressione è adesso molto semplificata: risulta evidente come il CdC ammesso dipenda esclusivamente dalla diagonale Df del formato dell'immagine.

Di conseguenza, per conoscere qual'è il valore di CdC ammissibile in ripresa (ovvero sul sensore), si applica dunque la stessa formula considerando un valore Df pari alla diagonale del sensore. Questi sono i valori del CdC sensore che si ottengono per i più comuni formati di ripresa:

formato APS-C 24x16mm, diagonale 29mm CdC = 0,0196 mm
formato 35mm 36x24mm, diagonale 43mm CdC = 0,0294 mm
formato digital-645 48x36mm, diagonale 60mm CdC = 0,0407 mm

Ecco allora il concetto fondamentale: premesso l'utilizzo dei valori standard sopra indicati, tutto ciò che viene registrato dal sensore all’interno del Circolo di Confusione, indipendentemente dalla nitidezza effettiva, non è riconoscibile sulla stampa finale e l’area viene rilevata dall’occhio come un singolo punto nitido.



Entro questo CdC potremo allora trascurare perdite di qualità dovute ad aberrazioni ottiche, diffrazione ed imprecisioni di messa a fuoco: proprio da questa tolleranza nasce il concetto di “Profondità di Campo” che andiamo ad analizzare nel prossimo paragrafo.




03 -
La "Profondità di campo"

Un punto “A” (di diametro nullo) sul quale abbiamo perfettamente impostato la messa a fuoco viene virtualmente restituito come un punto (anch’esso di diametro nullo) sul sensore della nostra fotocamera digitale.
I punti posti prima e dopo il nostro punto “A” saranno invece restituiti come circoli sfumati, con diametro crescente considerando punti sempre più lontani dal punto “A”.


Dato che –come visto in precedenza- la risoluzione del sistema visivo umano ha un limite, i circoli sfumati potranno essere percepiti come tali solo se il loro diametro supera la dimensione del Circolo di Confusione ammesso per il sensore utilizzato in ripresa.

Si determina così il concetto di “nitidezza apparente” in contrapposizione alla ”nitidezza reale”, che si ottiene esclusivamente sull'area dell'immagine che risiede sul piano di messa a fuoco.

Nota: come vedremo in seguito, il concetto di "nitidezza reale" ha un riscontro pratico parziale, perché esistono limitazioni dovute sia alle aberrazioni ottiche dell'obiettivo sia alla risoluzione intrinseca dei sensori. Possiamo dunque interpretare la "nitidezza reale" come "massima nitidezza ottenibile" di un dato sistema ottica-sensore.


L’immagine seguente riassume schematicamente questi concetti, considerando a titolo di esempio la visione di un bordo a medio contrasto, riprodotto prima in versione ideale e successivamente con due livelli di sfumatura. Nei primi due casi l’occhio percepisce un bordo nitido, mentre nell’ultimo caso percepisce un bordo sfumato, perchè i punti che compongono il bordo raggiungono una sfumatura (circolo rosso) di diametro superiore al CdC ammesso.




Come conseguenza di questo comportamento, si determina il principio di “Profondità di campo” PdC, ovvero una fascia di spazio davanti alla fotocamera nella quale gli oggetti presenti saranno riprodotti in stampa entro il limite di "nitidezza apparente".
Impostando la messa a fuoco di un obiettivo su soggetti relativamente vicini alla fotocamera, la profondità di campo risulta praticamente centrata rispetto al piano di messa a fuoco; focheggiando invece su soggetti più distanti si distinguono un "limite anteriore" ed un "limite posteriore", la cui somma restituisce il valore complessivo della Profondità di campo. Questi due limiti possono essere espressi matematicamente nel seguente modo:

limite anteriore = D / (1 + CdC * fn * ((D - F) / F 2 ))

limite posteriore = D / (1 - CdC * fn * ((D - F) / F 2 ))

dove:

D = Distanza del soggetto messo a fuoco, misurata dal piano del sensore (mm)
CdC = Circolo di Confusione (mm)
fn = apertura del diaframma (esempio: 11)
F = lunghezza focale dell'ottica utilizzata (mm)

E’ interessante notare che, a parità di condizioni di ripresa (obiettivo, apertura, distanza di messa a fuoco), la dimensione del Circolo di Confusione risulta determinante per stabilire l'estensione della profondità di campo.

Il rispetto dei CdC riportati in precedenza (relativi ai vari formati di sensore) ci consente come detto di ottenere stampe visionabili da una distanza “standard” pari alla diagonale del formato.
Scegliere un CdC più ampio comporta invece una maggiore profondità di campo, ma la derivante minor nitidezza generale ci costringerà –nel rispetto dei 140" di risoluzione dell'occhio- ad una visione delle stampe da una distanza superiore.
Scegliere invece un CdC inferiore comporta una minore profondità di campo, ma la maggior nitidezza generale ci consentirà di visionare le stampe da una distanza minore.

Chiarito il ruolo decisivo della scelta del CdC, non resta che comprendere come possiamo gestirlo in fase di scatto. Ebbene, a parità di regolazione della messa a fuoco, il grado di sfumatura dei circoli può essere significativamente ridotto solo riducendo l’apertura del diaframma (incremento del numero f/ ). I riferimenti della profondità di campo sono spesso riportati sui barilotti delle ottiche, soprattutto su quelle a focale fissa. Nel seguente caso si imposta la messa a fuoco sulla “distanza iperfocale" Dh per ottenere la massima estensione di PdC che comprenda anche l'infinito:


Scala delle profondità di campo del Nikkor 50mm f/1.8, progettato per il formato 35mm

In questo caso la distanza iperfocale utilizzata è circa 4mt: impostando diaframma f/22 si ottiene una Pdc estesa da circa 2 metri all'infinito. Le tacche di colore arancio sul barilotto mostrano in maniera intuitiva la PdC ottenibile a f/22, valore di diaframma riportato in arancio sulla ghiera dei diaframmi. La distanza iperfocale può essere individuata anche per via matematica, applicando la seguente formula:

Dh = F ² / (CdC * fn)

dove:

F = lunghezza focale dell'ottica utilizzata in mm (esempio: 50)
fn = apertura del diaframma (esempio: 22)
CdC = diametro del circolo di confusione ammesso (esempio: 0,0294)

Nel nostro caso la formula conferma pienamente le indicazioni riportate sul barilotto:

Distanza iperfocale = 50 ² / (0,0294 * 22) = 3865mm ovvero 3,86 metri


Bisogna tuttavia prestare molta attenzione alle indicazioni presenti sui barilotti delle ottiche progettate per il formato 35mm, perché si riferiscono ovviamente al CdC del formato 35mm (full-frame). Molte D-reflex montano invece sensori formato APS-C dove –come visto- il CdC ammesso è decisamente minore.

Ebbene, applicando le relazioni matematiche esposte in precedenza, si può dedurre che per ottenere il CdC standard sui sensori APS-C, si deve chiudere il diaframma di 1 stop in più rispetto a quanto indicato dai riferimenti di PdC presenti sul barilotto. Nell'esempio precedentemente illustrato non si possono dunque utilizzare i riferimenti rossi (f/22) perché si dovrebbe poi chiudere a f/32 (non disponibile). La massima PdC ottenibile è dunque quella indicata dai riferimenti di colore blu (f/16), chiudendo il diaframma a f/22.

La PdC sui formati APS-C sembrerebbe dunque inferiore rispetto a quella ottenibile sul formato 35mm, ma tenendo conto che la "focale equivalente" è 1,5 volte maggiore, in realtà è proprio l’APS-C ad avere una maggior profondità di campo disponibile. In linea generale, a parità di diaframma la profondità di campo aumenta col decrescere del formato del sensore.

Dopo aver analizzato come si gestisce la profondità di campo, è opportuno ricordare che l'utilizzo di un diaframma molto chiuso comporta uno scadimento qualitativo dovuto alla diffrazione: si incrementa infatti la percentuale di luce che, transitando in prossimità delle lamelle del diaframma, flette il proprio percorso.
Questo fenomeno provoca una visibile perdita di nitidezza, che può annullare completamente l’effetto positivo in termini di “nitidezza apparente”. Come conseguenza estrema, perfino i punti disposti sul piano di messa a fuoco possono essere riprodotti come circoli sfumati la cui ampiezza supera il CdC ammesso per il formato in uso: il calo qualitativo risultante sarebbe dunque apprezzabile anche in visione da distanza “standard”.

Per le ottiche progettate per i formati 35mm e APS-C (16x24mm) il limite si trova generalmente attorno ad f/8-f/11: diaframmando ulteriormente non si ottiene un miglioramento delle prestazioni bensì un graduale decadimento (vedere ad esempio il test del Nikkor 105mm).

Nota: per evitare di eseguire manualmente tutti i calcoli fin qui esposti, si possono utilizzare software specifici come ad esempio l’ottimo Fcalc.





04 -
Il Fine-Art può andare oltre le regole

Dall’esposizione sin qui fatta abbiamo compreso che, al fine di ottenere una stampa di buona “nitidezza apparente”, l’effetto combinato delle aberrazioni ottiche, della diffrazione e del fuori fuoco su un punto non deve eccedere il CdC ammesso per il formato del sensore in uso.
Questa è una convenzione generale, ma la questione è: "ha senso andare oltre?"

Nella nostra esperienza di tutti i giorni esiste il concetto che, proprio a causa del limite di acutezza della visione umana, per ottenere maggior dettaglio di un oggetto ci avviciniamo ad esso. Eseguiamo questa operazione in modo automatico, senza neanche rendersene conto. Spesso facciamo la stessa cosa anche con le stampe fotografiche, ma l’utilizzo di “nitidezza apparente” di fatto non fornisce ulteriori informazioni, e questo provoca talvolta una sensazione negativa.
Ovviamente non c’è alcun bisogno di visionare una stampa da pochi centimetri, anche perché
la distanza minima per una comoda visione da parte dell’occhio umano è di circa 25cm. Non è un affatto casuale che la risoluzione di stampa ottimale, pari a 300dpi (punti per pollice), deriva proprio dal fissare un CdC calcolato con distanza di visione di 25cm e con Alfa=70” (miglior acutezza visiva dell’occhio, con soggetti ad alto contrasto).

La “necessità” di ulteriori dettagli è certamente un elemento soggettivo, dipende anche dalla tipologia e dalle dimensioni dell’immagine che stiamo osservando. Soprattutto le stampe che raffigurano elementi imponenti (ad esempio paesaggi) si prestano molto ad un esame ravvicinato, per un effetto che definirei di “immersione fotografica”.

Ebbene, in questi casi può essere utile ridurre più possibile il CdC in fase di ripresa, utilizzando uno dei seguenti metodi:

- maggiore chiusura del diaframma. Questo metodo –come detto- trova un serio limite da f/11 in poi, dove la diffrazione determina un progressivo scadimento della qualità dell'immagine.

- utilizzo di ottiche di tipo Tilt/Shift, che permettono di orientare il piano della “nitidezza reale” grazie all’applicazione della regola di Scheimpflug. Si tratta tuttavia di dotarsi di attrezzature particolari (e relativamente costose) con le quali si ottengono normalmente buoni risultati, ma non in alcune situazioni di ripresa (vedi il primo articolo).

- realizzazione del “Focus stitch”, con il quale si realizzano più scatti della stessa scena, impostando per ciascuno scatto una diversa messa a fuoco; successivamente si selezionano le aree più nitide di ciascuno scatto in post-produzione digitale.

Quest’ultimo è il metodo che ci apprestiamo ad esaminare in maniera approfondita.




05 -
Limiti di risoluzione del sistema obiettivo-sensore

Prima di entrare nel merito della tecnica del Focus Stitch, bisogna chiarire come si determina la minima distanza dalla quale si può osservare una stampa senza ottenere un effetto di insufficiente nitidezza.

A tal fine occorre valutare la risoluzione effettiva del sistema obiettivo-sensore, tenendo presente che in ambito digitale le differenze di potere risolvente tra sensori diversi, a parità di formato e di sensibilità ISO nominale, possono essere molto più elevate che in ambito analogico. Basti pensare che non più di 4 anni fa erano ancora in produzione fotocamere formato APS-C con appena 2,7Mpixel, mentre oggi sullo stesso formato troviamo alloggiati oltre 12Mpixel.

L’unità minima di registrazione del sensore è certamente il singolo pixel, pertanto possiamo esprimere la risoluzione del sensore come “Circolo di Dettaglio minimo” CDm:

CDm = (Lmm / Lpix)

dove:
- Lmm = lato del sensore in millimetri
- Lpix = numero di pixel disposti sullo stesso lato del sensore

Facciamo un esempio pratico utilizzando un sensore di formato APS-C da 12Mpixel (4288x2848):

CDm = 23,7 / 4288 = 0,0055 mm



Rappresentazione grafica del CdC e del CDm teorico, su sensore APS-C da 12Mpixel

In realtà il valore CDm ottenuto è da considerarsi un valore teorico, perché nella realtà si deve tener conto di problemi dovuti alle proprietà sia del sensore che dell'obiettivo utilizzato.

Per ciò che riguarda il sensore, i principali limiti sono dovuti a:

- distribuzione dei pixel RGB secondo la matrice di Bayer: di fatto in ciascuna cella elementare (pixel) viene registrato un solo colore primario, dunque per ricostruire il valore degli altri due colori primari è necessario un sofisticato processo di elaborazione chiamato "demosaicizzazione" (vedi articolo DCRAW).

- filtro ottico anti-alias: una azione eccessiva di questo filtro posto davanti al sensore, può provocare una ulteriore diminuzione del potere risolvente (vedi più avanti).

Questi due fattori, ovviamente oltre alla densità dei pixel, determinano la risoluzione effettiva del sensore (Sr).

Per ciò che riguarda invece l'obiettivo, la risoluzione effettiva (Lr) è limitata dalle aberrazioni ottiche (in maggior misura nella periferia del fotogramma) e dalla diffrazione (con valori alti di f/ rispetto al formato in uso).




06 -
Sensore: risoluzione disponibile e risoluzione ideale

Abbiamo appena visto che obiettivo e sensore posseggono un proprio potere risolvente. La condizione ideale sarebbe certamente disporre di un sensore con risoluzione sufficiente a catturare tutto il dettaglio trasmesso dai migliori obiettivi in commercio.

Qual'è il corretto rapporto tra le due risoluzioni, al fine di raggiungere questa condizione ideale?

Il teorema del campionamento dimostra che è possibile ricostruire correttamente un segnale analogico, a patto che la frequenza di campionamento Fs sia almeno doppia della massima frequenza contenuta nel campione stesso.

Fs = 2 * Fmax

In una mira ottica, la sequenza di righe parallele bianche e nere alternate può essere definita come una frequenza spaziale ad onda quadra, la quale, in accordo con l'analisi di Fourier, è costituita dalla somma di infinite onde armoniche sinusoidali di frequenza crescente: il passaggio repentino dal nero al bianco (e viceversa) sarebbe pertanto ricostruibile solo con un campionamento a frequenza Fs infinita (in pratica con una densità infinita di pixel sul sensore).

Tuttavia le aberrazioni e/o la diffrazione introdotte dall'obiettivo costituiscono un vero e proprio filtro ottico passa-basso, che taglia via gran parte delle frequenze spaziali più elevate: si rende così possibile l'utilizzo di frequenze di campionamento Fs (ovvero densità di pixel) più contenute.

Se tuttavia la frequenza di campionamento Fs del sensore non raggiunge il valore richiesto dal teorema, nasce l'esigenza di installare un particolare vetro ottico davanti al sensore (chiamato filtro anti-alias), calcolato in modo attenuare le frequenze spaziali superiori al doppio della frequenza di campionamento del sensore (parametro noto ai costruttori). Se questo filtro è assente oppure ha un azione insufficiente, il potere risolvente del sistema obiettivo-sensore risulta maggiore, ma la ricostruzione del segnale può risultare disturbata, provocando l'insorgere di fastidiosi difetti come il Moirè (riproduzione di trame non presenti nella realtà).

I migliori sensori attualmente in commercio (12Mp su formato DX, 21Mp su formato 35mm), seppur capaci di catturare gran parte delle informazioni trasmesse dalle ottiche più performanti, non riescono a rispettare pienamente il teorema del campionamento.
A conferma di ciò, tutte le reflex digitali montano filtri anti-alias, senza il quale insorgerebbero vistosi problemi di aliasing. Qui è possibile vedere il forte effetto Moirè che si verifica nella "vecchia" Kodak DSC Pro, una reflex digitale con sensore formato 35mm, sprovvista di filtro anti-alias
.

Nota:
la "corsa" all'incremento dei Mpixel nei sensori,a parità di dimensioni, è dunque spiegata: per catturare tutte le informazioni provenienti dall'obiettivo, il sensore deve raggiungere una risoluzione molto elevata.
Riducendo la dimensione dei pixel si hanno tuttavia crescenti problemi legati al rumore elettronico, rendendo necessario l'utilizzo di tecniche avanzate hardware/software per la riduzione del rumore: la controindicazione di queste tecniche consiste nella riduzione della risoluzione effettiva dell'immagine, che rende talvolta vana la maggior densità di pixel.
I costruttori devono dunque cercare un mix corretto tra densità di pixel e rumore elettronico, tenendo presente anche la forte richiesta di qualità alle sensibilità ISO superiori a quella nominale.
Una possibile alternativa consiste nell'impiego di formati maggiori del sensore (come i dorsi per medio-formato 36x48mm) mantenendo invariata la densità di pixel, al fine di incrementare il rapporto tra la risoluzione della sensore e quella dell'ottica.





07 -
Circolo di dettaglio minimo CDm reale

Dopo aver analizzato le problematiche legate alla riproduzione digitale di una immagine, cerchiamo di quantificare il valore del circolo di dettaglio minimo CDm reale.

Seguendo la via sperimentale, si può utilizzare la metologia proposta da Imatest ; all'interno del sito web si trova il software necessario ed una accurata descrizione delle condizioni necessarie per i test. E' inoltre presente un’ampia documentazione teorica (solo in lingua inglese, purtroppo).

Per quanto attiene alla nostra ricerca, non è tuttavia conveniente addentrarsi nell'analisi dei sistemi di misura: piuttosto ci interessa sapere come si esprime la risoluzione e quali sono i valori mediamente ottenuti con i materiali oggi a disposizione.

Nella seguente immagine è rappresentata una mira originale (sequenza di linee parallele, con spaziatura decrescente) ed un esempio di come la mira stessa viene riprodotta da un sistema obiettivo-sensore:


I parametri da prendere in esame sono essenzialmente due:

- LW/PH è il numero di linee parallele riproducibili sfruttando il lato corto del sensore
-
MTF è la “funzione di trasferimento della modulazione”, ovvero il livello di contrasto restituito per un determinato valore di LW/PH.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la nitidezza percepita non si misura sul massimo LW/PH ottenibile (dove il MTF è molto basso, con linee appena riconoscibili), bensì sul valore LW/PH per il quale il MTF risulta il 50% del suo valore massimo (MTF50).

Il risultato medio dei test indica che, utilizzando ottiche di alta qualità progettate per il formato 35mm, si ottiene una risoluzione media del sistema a MTF50 intorno al 60%-70% del numero di pixel presenti sull’asse.

In virtù di ciò si deve introdurre un fattore di degrado del CDm teorico, il cui valore minimo può essere considerato 1,7 ma, volendo considerare un valore che riassuma il comportamento medio dell’ottica (media tra centro e bordi del fotogramma), si può considerare un valore medio di 2.

Si ottiene cioè un valore del CDm reale pari al doppio del lato del singolo pixel. Nel nostro esempio otterremo perciò:

CDm reale = CDm * 2  = 0,0110 mm



Rappresentazione grafica del CdC e del CDm reale, su sensore APS-C da 12Mpixel




08 -
La distanza minima di visione DVm

Dal rapporto tra il CDm reale calcolato e il CdC ammesso per il formato, possiamo finalmente esprimere la distanza di visione minima della stampa (DVm), in funzione della diagonale della stampa:

DVm = (CDm reale / CdC) * D

Nel nostro caso:

DVm = (0,0110 / 0,0196) * D = 0,56 * D

Pertanto si può concludere che:

- rispettando in fase di ripresa il valore di CdC standard, la stampa potrà essere osservata da una distanza pari a D, ovvero la diagonale del formato

- utilizzando in fase di ripresa un valore di CdC pari a CDm reale, la stampa potrà essere osservata da una distanza minore (pari al 56% di D) senza notare alcun degrado.

La seguente tabella riassume le caratteristiche delle stampe riproducibili con una stampante capace di 300 dpi (punti per pollice), utilizzando il pieno fotogramma della fotocamera APS-C da 12Mp, in funzione della scelta dei ppi (pixel per pollice in stampa) e del CdC utilizzato in fase di ripresa:


Nelle colonne “Risoluz. Stampa Necessaria” è indicata la risoluzione di stampa necessaria (ppi) calcolata in base alla risoluzione massima dell’occhio (alfa=70”), relativamente alla distanza di visione: questo valore di risoluzione deve essere minore o uguale alla risoluzione scelta (prima colonna).

Nella condizione più favorevole troviamo la stampa eseguita utilizzando 300 pixel per pollice in stampa (dimensione 24x36cm), che potrà essere visionata da 43cm di distanza nel caso di CdC standard oppure da 25 nel caso di CdC=Cdm reale.
Utilizzando invece solo 25 pixel/pollice otteniamo una stampa di ben 4,3x2,9 metri, visionabile da 5,2mt di distanza nel caso di CdC standard oppure da 3mt nel caso di CdC=Cdm reale.




09 -
Quando i Megapixel non bastano

Abbiamo appena visto le potenzialità di un sensore APS-C da 12Mpixel, uno dei più performanti tra quelli attualmente sul mercato, ma è altresì interessante evidenziare i limiti che si incontrano utilizzando sensori con un numero di pixel inferiore. Ad esempio, poniamo il caso limite di un sensore formato APS-C da 2,7 Mpixel (2000x1312):

CDm = 23,7 / 2000 = 0,0118 mm

CDm reale = CDm * 2 = 0,0237 mm


Rappresentazione grafica del CdC e del CDm reale, su sensore APS-C da 2,7Mpixel

Ebbene, in questo caso il CDm risulta addirittura superiore al CdC ammesso per il formato, per cui la regola della distanza di visione standard non trova applicazione: la minima distanza di visone risulta infatti del 21% superiore a quella “standard”:

Dvm = (0,0237 / 0,0196) * D = 1,21 * D

Di seguito è riportata la tabella delle caratteristiche delle stampe riproducibili con una stampante capace di 300 dpi (punti per pollice), relativa a questo sensore:


La colonna di colore rosso avverte che la risoluzione di stampa necessaria (ppi) per la distanza di visione “standard” è sistematicamente insufficiente rispetto a quella scelta per la stampa: di fatto non andrebbe utilizzato il CdC standard, bensì il CDm reale, che comporta una distanza di visione incrementata del 21%.
Si può tuttavia accettare il CdC standard della prima riga (300 ppi) perché non si dovrebbero considerare distanze di visione più brevi di quella “comoda” per l’occhio (25cm).

Nel confronto con la precedente tabella si nota che un minor numero di pixel comporta, a parità di ppi scelti, una stampa necessariamente più piccola. Questo vale ovviamente anche nel caso si effettuino ritagli dell’immagine originale.




10 -
Riepilogando

La scelta dei parametri di scatto (compreso il tipo fotocamera) deve essere finalizzata esclusivamente alle condizioni di visione della stampa previste. Ad esempio, i grandi cartelloni pubblicitari non provengono da stitch gigapixel, bensì da singoli scatti eseguiti con normali fotocamere: questo perché si accetta una distanza di visione minima nell’ordine dei metri o addirittura delle decine di metri.
Quando invece si tratta di
immagini Fine-art destinate all’esposizione, la scelta della massima nitidezza in ripresa gioca un ruolo fondamentale, perché l’osservatore tende a valutare il contenuto artistico ma al contempo anche quello puramente tecnico: la distanza di visione può dunque essere inferiore a quella “standard”, fino ad un minimo di 25cm.

Il Focus stitch, nelle situazioni di ripresa che lo rendono applicabile, permette di fissare la dimensione del CdC virtualmente per qualsiasi profondità di campo necessaria, pertanto si rivela un ottimo strumento per ridurre la minima distanza di visione delle stampe.

La condizione necessaria per sfruttare al massimo le potenzialità del Focus stitch è quella di utilizzare un sensore il cui CDm reale (Circolo di Dettaglio minimo) è significativamente inferiore al CdC (Circolo di Confusione) ammesso per il formato, in modo da sfruttare al massimo il potere risolvente dell'ottica utilizzata.

Tuttavia il Focus Stitch è utilizzabile con successo anche quando si ritiene sufficiente il CdC standard, ma si vuole estendere la profondità di campo oltre i limiti imposti dal CdC stesso.




11 -
Valutazioni pratiche

Vediamo adesso quali sono i livelli di definizione che si ottengono adottando diversi di apertura del diaframma e diversi valori di CdC.

Per eseguire gli scatti di test, ho utilizzato una fotocamera con sensore da 10Mpixel con un'ottica fissa di focale 50mm. Gli scatti sono stati eseguiti nelle massime condizioni di stabilità della fotocamera, ed il particolare della scena che ho utilizzato come riferimento è di tipo statico. La post-produzione si è limitata alla conversione del RAW, applicando in CameraRaw un valore di maschera di contrasto uguale per tutti gli scatti, pari a 25.
Il particolare che andremo ad analizzare, di seguito indicato nel riquadro rosso, è posto ad una distanza che possiamo assumere come “infinito”:


Scena utilizzata per il test, ripresa con fotocamera da 10Mp ed ottica 50mm


Di questa immagine ho inizialmente eseguito due scatti con messa a fuoco su infinito: la prima con diaframma f/11, l'altra con f/22. Questi i risultati, mostrati con dettaglio al 200%:


Comparazione qualitativa del 50mm, diaframmato a f/11 e f/22


Nello scatto a f/22 si nota chiaramente il degrado dovuto alla diffrazione. Per una miglior valutazione dei risultati, il test dell’impatto del CdC sulla nitidezza sarà dunque effettuato sul diaframma f/11.

A questo proposito ho realizzato una serie 4 di scatti con diversa messa a fuoco:

1- iperfocale calcolata con il Cdc del formato 35mm (0,0294mm): sul barilotto si allinea al simbolo dell'infinito la tacca Pdc relativa al diaframma utilizzato;

2- iperfocale calcolata con il Cdc del formato APS-C (0,0196mm): sul barilotto si allinea al simbolo dell'infinito la tacca Pdc relativa ad un f/stop in meno rispetto al diaframma utilizzato (ad esempio per f/22 si utilizza la tacca f/16);

3- iperfocale calcolata con il Cdc pari al CDm reale. Per il nostro sensore da 10Mp i calcoli indicano CDm teorico =0,006, mentre il fattore di degrado è stato considerato pari a 2. Pertanto il CDm reale risulta di 0,012mm e la distanza iperfocale per ottenerlo risulta di circa 18mt. In questo caso si può utilizzare con buona approssimazione la tacca Pdc relativa a due f/stop in meno rispetto al diaframma utilizzato (se disponibile);

4-messa a fuoco su infinito (condizione di riferimento)

Questi i risultati, mostrati con dettaglio al 200% :


Comparazione qualitativa con scatti a f/11, con diverse impostazioni di messa a fuoco


Valutiamo le differenze qualitative tra i vari scatti:

- lo scatto con iperfocale calcolata sul CdC del formato 35mm ha –come da previsioni- la nitidezza minore: una stampa generata da questo file rivelerebbe questa minor nitidezza da una distanza di visione standard;

- lo scatto con iperfocale calcolata sul CdC del formato APS-C mostra una miglior nitidezza, tale che una stampa generata da questo file sarebbe –da una distanza di visione standard- praticamente indistinguibile da quella generata con lo scatto con m.a.f. su infinito.

- lo scatto con iperfocale con CdC pari al CDm reale mostra un risultato praticamente identico a quello con m.a.f. su infinito: questo significa che tutte le informazioni aggiuntive eventualmente trasmesse dall’ottica focheggiando esattamente all’infinito non possono essere registrate dal nostro sensore. Un'immagine del genere può essere osservata da una distanza inferiore a quella standard.

Da quest’ultima considerazione si deduce che –al fine di ottenere la massima qualità possibile con un soggetto tridimensionale- non è necessario eseguire una lunga serie scatti relativi a ciascun piano della scena (condizione teorica), ma è sufficiente eseguire un numero ridotto di scatti perché si sfrutta la profondità di campo ottenibile con un CdC pari al circolo di definizione massima (CDm reale).




12 -
Focus stitch sul campo

Utilizziamo il seguente caso pratico per mostrare i benefici derivanti da questa tecnica:


Si tratta di una classica situazione di ripresa: l’immagine è stata ripresa con un sensore APS-C e ottica di focale 28mm (42mm equiv.), cercando ottenere una profondità di campo sufficiente per coprire tutta la scena inquadrata, che si estende da circa 60cm all’infinito.

Prendendo a riferimento il CdC del formato APS-C (0,0196mm), si sarebbe resa necessaria una chiusura del diaframma a f/32, con messa a fuoco impostata sull’iperfocale (1,25mt). Dato che f/32 è indisponibile, si è utilizzato il diaframma f/22 ammettendo il CdC del formato 35mm (0,0294mm), sempre con messa a fuoco sull’iperfocale (1,18mt). Nell’illustrazione seguente sono riportarti alcuni ritagli dell’immagine provenienti rispettivamente dalla zona di messa a fuoco, primo piano e sfondo:

Primo piano
Zona centrale
Sfondo
Nitidezza ottenuta con scatto singolo a f/22, con CdC del 35mm. Dettagli al 100%.


Come risulta evidente, c’è una visibile perdita di qualità sui soggetti in primo piano e sullo sfondo rispetto al piano di messa a fuoco, che comunque non è ottimale considerando ciò che si può ottenere scattando a f/11.

Per risolvere entrambi i problemi, si decide di effettuare una sequenza di sei scatti a f/11, con messa a fuoco così impostata:


Sequenza di 6 scatti (F1-F6) per eseguire il Focus Stitch.


La CdC utilizzata è quella del formato APS-C, che in pratica si ottiene scattando a f/11 e seguendo le tacche sul barilotto relative ad uno stop più aperto, ovvero f/8. La scelta di un CdC pari al CDm reale avrebbe richiesto un numero troppo elevato di scatti, per cui si è preferita una soluzione di buon compromesso tra qualità e rapidità di esecuzione.
Questa è una valutazione che va fatta caso per caso, in funzione della PdC totale necessaria, della nitidezza richiesta, delle caratteristiche del soggetto ripreso, ed anche in base agli eventuali limiti di risoluzione dell’ottica utilizzata, che renderebbero vano l’utilizzo di un CdC più contenuto. Non è infatti raro utilizzare ottiche (in particolare quelle grandangolari) che non risolvono significativamente di più del CdC standard.

Tornando al nostro esempio, la scelta dello schema a sei scatti comporta molti vantaggi:

- si passa da uno a ben 6 piani di messa a fuoco con “nitidezza reale”

- si posiziona un piano di nitidezza sul primo piano ed uno sullo sfondo, zone nelle quali spesso si valuta con maggior attenzione la definizione dell’immagine

- si utilizza un diaframma ottimale (f/11), che evita il problema della diffrazione

- si adotta un CdC sufficiente per il formato utilizzato.

Una volta realizzati gli scatti necessari, vediamo come ottenere in post-produzione l’immagine definitiva, con l’aiuto di PTGui.




13 -
La post-produzione con PTGui

La prima cosa che notiamo aprendo le immagini su livelli distinti di Photoshop è che, pur essendo state scattate su cavalletto, le immagini con messa a fuoco diversa non coincidono:


Gli scatti con diversa messa a fuoco non coincidono.
Scatti con m.a.f.=60cm e m.a.f.=infinito sovrapposti con opacità 50%


Da un'analisi più approfondita, è facile notare come i sei scatti siano caratterizzati da rapporti di ingrandimento leggermente diversi, fenomeno fisico dovuto alla diversa messa a fuoco. Serve dunque un software che esegua in maniera corretta il ridimensionamento degli scatti per renderli sovrapponibili.

PTGui è in grado di svolgere perfettamente questo compito. Vediamo come.

Si apre un nuovo progetto PTGui, quindi si inseriscono le 6 immagini che compongono il Focus stitch: nel nostro caso l’immagine “0” è quella con m.a.f. ravvicinata (60cm) mentre l’immagine “5” è quella con m.a.f. su infinito. PTgui dispone della funzione di rilevamento automatico dell’ottica utilizzata (dati EXIF), ma è sempre consigliabile controllare la loro correttezza.

Nel pannello “Lens” si informa PTGui che le immagini 0-4 vanno trattate come “individual lens” (ottica individuale), ovvero potranno essere ottimizzate con valori diversi di FoV,a,b,c rispetto all’immagine 5:


Nel pannello “Panorama Settings” impostiamo la proiezione “rettilineare”, ovvero la stessa generata dall’ottica utilizzata:


Si apre successivamente il pannello “Control Points”, e si avvia la generazione automatica dei punti di controllo dal menu “Control Points / Generate Control points for all images”. I punti di controllo vengono normalmente generati correttamente, ma si deve far attenzione che non siano stati presi riferimenti su soggetti che si sono mossi tra uno scatto e l’altro: in tal caso i punti incriminati devono essere rimossi.


Nel pannello “Optimizer” (modalità avanzata) si impostano i seguenti parametri:


Come si vede, nessun parametro viene ottimizzato globalmente.
Mentre l’immagine 5 rimane praticamente intatta (tutti i flag sono senza spunta), le immagini 0-4 dovrebbero essere ottimizzate individualmente solo per il FoV, perché l’angolo di campo è l’unico parametro che varia tra scatto e scatto. Tuttavia preferisco ottimizzare anche per Yaw,Pitch e Roll, per compensare eventuali micro-movimenti della fotocamera durante la sessione di scatti.

A questo punto si lancia l’ottimizzazione (Run Optimizer) e si valutano i risultati:


L’errore medio è molto basso ed anche l’errore massimo è molto contenuto, dunque si può accettare di buon grado il lavoro svolto dall’Optimizer.
Nel caso si abbiano errori massimi più elevati, è consigliabile un controllo dei relativi punti di controllo, individuabili grazie alla “Control point table” ordinata per la colonna “Distance”:


Successivamente, per controllare visivamente il lavoro svolto, si apre la finestra “Panorama editor” e si adatta il FoV complessivo al Fov dell’immagine, utilizzando il tasto “Fit Panorama”:


L’ultima fase è quella di creazione del file PSD finale:


Queste sono le scelte effettuate:

- Height e Width sono impostate con le stesse dimensioni degli scatti originali
- File Format: PSD (Photoshop)
- Layers: "Individual layers only". Ciascuno scatto opportunamente ridimensionato occupa un livello dell’immagine finale (non ci interessa eseguire il blending)
- Stitch using: "PTgui"
- Interpolator: "Lanczos" (il migliore algoritmo di interpolazione disponibile, anche se più lento di tutti gli altri)

Al termine dell'elaborazione la sovrapposizione tra gli scatti risulta perfetta, fatta ovviamente eccezione per gli elementi che si sono mossi tra uno scatto e il successivo:


Dopo l'elaborazione con PTgui, gli scatti con diversa messa a fuoco coincidono.
Scatti con m.a.f.=60cm e m.a.f.=infinito sovrapposti con opacità 50%




14 -
La post-produzione con Photoshop

La fase di selezione delle aree più nitide di ciascun fotogramma si esegue con un software di photo-editing, capace di gestire i livelli e le maschere di livello: Photoshop è sicuramente il software di riferimento per questo tipo di applicazione.

La tecnica è concettualmente semplice, ma quando il numero di livelli è elevato il tempo di lavorazione non è affatto trascurabile; l’esperienza insegna inoltre che molto dipende dal layout della scena inquadrata. In pratica si tratta lavorare con lo strumento "pennello" su ciascuna maschera di livello, in modo da nascondere (annerire) le aree sfocate o poco nitide, partendo dal livello più in alto.

Ecco come si presenta la palette "livelli" dopo la lavorazione definitiva:


Come si vede, dell’immagine 5 (m.a.f. su infinito) è stato selezionato lo sfondo, mentre delle restanti immagini sono state selezionate porzioni che corrispondono a distanze sempre più ravvicinate.
Al termine è sufficiente il comando "unisci livelli" per ottenere l’immagine finale. Il livello di nitidezza che si ottiene è elevato e molto uniforme tra i vari piani della scena: di seguito sono mostrati gli stessi tre ritagli che avevamo visto nel caso dell’iperfocale a f/22:

Primo piano
Zona centrale
Sfondo
Nitidezza ottenuta con Focus Stitch a 6 scatti, diaframma f/11 e CdC del formato APS-C. Dettagli al 100%.

Il guadagno ottenuto in termini nitidezza si commenta da solo. Per una miglior valutazione, è possibile scaricare l’immagine completa (formato jpeg qualità 10, dimensione del file 4 Mb).
Ricordo che, al fine di limitare il numero di scatti, abbiamo accettato il CdC standard del formato APS-C, ma si può ottenere una uniformità di nitidezza ancora superiore adottando un CdC pari a CDm reale.

Viceversa, accettando un livello di nitidezza intermedio, si può optare per una serie di tre scatti con lo stesso CdC ma con diaframma f/22, dedicando due scatti al primo piano ed allo sfondo, più uno scatto intermedio. Questi sono i risultati:

Primo piano
Zona centrale
Sfondo
Nitidezza ottenuta con Focus Stitch a 3 scatti, diaframma f/22 e CdC del formato APS-C. Dettagli al 100%.

Considerato il lavoro molto più ridotto sia in fase di ripresa che in fase di post-produzione, anche questa soluzione è da ritenersi molto vantaggiosa.

Nota: La tecnica fin qui descritta, composta da una prima fase in PTgui e dalla seconda in Photoshop, può essere utilizzata anche per unire scatti con esposizione diversa, al fine di aumentare il range dinamico in ripresa. Il lavoro sulle maschere di livello è tuttavia molto più complicato che con il Focus stitch, pertanto, fatta eccezione per le situazioni più semplici (ad esempio, il recupero di una zona ben definita come il cielo), è preferibile utilizzare software specifici per l’HDR come ad esempio Photomatix.





15 -
Conclusione

La gestione della nitidezza dei vari piani della scena, rimasta per decenni esclusivo appannaggio degli utilizzatori di attrezzature speciali (fotocamere a corpi mobili oppure ottiche Tilt/Shift), apre oggi le porte anche al “popolo” del piccolo formato grazie alla tecnica digitale del Focus Stitch.

In questo articolo abbiamo mostrato il potenziale del Focus stitch, ma è importante conoscere anche i limiti pratici di questa tecnica, primo fra tutti la necessità di disporre di soggetti statici. In realtà questo limite è talvolta aggirabile, potendo contare su un po’ di esperienza in fase di ripresa ed in fase di post-produzione. Il concetto è che gli artefatti possono esistere, ma non devono essere individuabili anche dell’osservatore più smaliziato.
Ad esempio, l'immagine che abbiamo utilizzato come test è stata scattata in una giornata primaverile, in presenza di una discreta brezza a regime intermittente. I singoli scatti sono nitidi (con diaframma f/11 il tempo di scatto era abbastanza veloce, 1/160sec @ ISO 100) ma i soggetti mobili sui piani più vicini (erba, fogliame) risultano talvolta in posizioni diverse da fotogramma a fotogramma: questo ha provocato un moderato incremento di lavoro in Photoshop, ma il risultato raggiunto è più che soddisfacente dal punto di vista tecnico.

Un altro limite si manifesta quando un soggetto vicino alla fotocamera si staglia direttamente su uno sfondo posto a distanza considerevolmente maggiore. In questi casi la soluzione perfetta non esiste, perché i margini sfocati del soggetto in primo piano (nello scatto con m.a.f. sullo sfondo) nascondono una porzione dello sfondo maggiore della superfice reale del soggetto stesso. Anche l’utilizzo delle menzionate attrezzature speciali non consente di rimediare il problema, perché regola di Scheimpflug in questi casi non trova applicazione.
L’unica soluzione possibile è l’impiego di fotocamere digitali con sensori di dimensioni inferiori, come ad esempio quelli delle compatte. A parità di campo inquadrato infatti, la lunghezza focale necessaria è notevolmente minore, per cui la profondità di campo ottenibile impiegando il CdC standard è decisamente maggiore. Si dovrà tuttavia valutare la compatibilità tra la qualità di immagine offerta da queste fotocamere e l’obiettivo “Fine-art” del lavoro da realizzare.



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